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Papa Francesco e la “Terza guerra mondiale” nella società postmoderna, globalizzata e interdipendente

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Una prima riflessione che vorrei fare è di carattere etimologico.

Dal 11/9/2001 il mondo sta vivendo diverse forme di guerre tipiche della società postmoderna.

Nel secolo breve abbiamo conosciuto la I e II secondo guerra mondiale e tante guerre tradizionali combattute in diverse aree geografiche; ma si trattava di guerre che chiameremo tradizionali in cui c’erano dei territori, degli Stati, degli obbiettivi (seppur inumani).

In altre parole nel secolo breve gli equilibri si sono retti sulla cosidetta Guerra Fredda.

La Guerra Fredda era rappresentato da un Muro; un Muro che attraversava una città, Berlino, un continente, l’Europa, e l’intero sistema internazionale, conferendogli unità, facendo prevalere gli elementi della comune identità politica di due universali in lotta tra loro, sull’infinità variabilità di tutte le altre differenze esistenti (“la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” Carl von Clausewitz).

Con il crollo del muro di Berlino, le “guerre” prendono il posto della “guerra”, e lo stesso concetto di “pace nel mondo”, pur mantenendo un ovvio significato di sforzo morale, di valore etico, perde molto del suo senso (valori) per la presenza sempre più diffusa del nichilismo, che fa perdere la bussola del suo stesso significato politico.

Con il crollo delle ideologie e l’affermarsi del nichilismo, i veri codici culturali sono il potere economico e la tecnica; l’età della tecnica e del profitto ha abolito la cultura umanistica, e le domande di senso sono un non senso. La tecnica e il profitto egolatrico non hanno uno scopo, non promuovono un senso, non aprono scenari di salvezza, non redime, non svela verità; la tecnica come il profitto esistono in quanto funzionano.

Da questi codici culturali globalizzati e interconessi si sono sviluppati diverse forme di comunitarismi tribali glocali con pseudocodice valoriali.

Cito solo alcune guerre che stiamo vivendo: guerra al terrorismo, guerra in Ucraina, guerra in Medio Oriente, guerre economiche, guerre valutarie, guerre informatiche, guerre al narcotrafficanti, guerre ai trafficanti di esseri umani ecc.

Dinanzi a questi cambiamenti il Magistero papale da Giovanni XXIII a Papa Francesco hanno continuato a sottolineare la “pazzia e l’inumanità delle guerre”.

Papa Francesco è tornato a denunciare la “follia della guerra”, alimentata dai “pianificatori del terrore” e dagli “organizzatori dello scontro” assetati di denaro e di potere. Il severo monito del Pontefice è risuonato sabato mattina, 13 settembre 2014, durante la messa celebrata a Redipuglia nel ricordo del centenario del primo conflitto mondiale.

In maniera profetica Papa Francesco, leggendo i “segni dei tempi” dell’attuale scenario geopolitico, su scala planetaria, segnato da una crescente parcellizzazione di interessi, da comunitarismi e identitarismi tribali, che acuiscono la conflittualità, ha denunciato– citando analisi sviluppate in questi anni – che stiamo vivendo una “Terza guerra mondiale” combattuta “a pezzettini”, sottolineando cioè il frazionamento delle ostilità in diverse aree geografiche ma unite dalla globalizzazione d’interessi.

La terza guerra mondiale non è decisa dalle cancellerie ma scorre come fiume carsico in numerosi rivoli di eserciti irregolari o di bande armate, l’appello accorato del papa si rivolge a quanti possiedono i bacini di alimentazione di questi torrenti di “guerra a pezzi”: i produttori e i commercianti di armi, siano essi privati o istituzionali.

Sta a loro decidere se disarmare o meno i belligeranti, sta al potere economico e finanziario – che è intrecciato con quello politico, ma ha anche una sua autonomia – decidere se trasformare il flusso di munizioni che è flusso di morte in un flusso di aiuti e in una corrente di vita, tocca anche a loro – e con ben più gravi ricadute – la faticosa scelta quotidiana che ciascuno di noi è chiamato a compiere tra la corruzione e l’onestà, tra la morte e la vita.
Le parole di Papa Francesco, che non ha mai nominato la religione come fattore di giustificazione della “cupidigia, dell’intolleranza, dell’ambizione al potere” proprie della guerra, sono anche un monito a reagire alle minacce contro l’Europa e i cristiani lanciate in questi lunghi mesi dall’ISIS in modo tale da disinnescare qualsiasi connessione tra fede religiosa e violenza disumana: come vanno ripetendo assieme al papa tutte le più alte figure religiose mondiali, “non si può uccidere nel nome di Dio”.

La profezia del papa ci svela che il vero problema non riguarda le singole guerre( come il caso ucraino nella vecchia Europa, la crisi finanziaria in Grecia o di quelle mediorientali). Papa Francesco ci invita a vedere nel profondo, per comprendere le vere cause delle contrapposizioni tra i diversi modelli di civiltà in cui emerge una diversa concezione del mondo e della storia. La scesa in campo dei Paesi emergenti (Brics), in competizione con l’Occidente, unitamente allo strapotere delle oligarchie salafite negli Stati a maggioranza islamica, sono fenomeni che inibiscono quasi ogni azione politica protesa alla mondializzazione delle relazioni. E’ il trionfo del nichilismo questo ospite inquietante che fa perdere  il fine dell’essere uomini e comunità; questa cultura ci sta portando direttamente verso il tramonto dell’umanità.

Papa Francesco prima di molti altri, ha compreso che nella società globalizzata gli interessi (di pochi) sono governati dal valore dell’interdipendenza slegato dall’umanità e dal bene comune.

Se nel passato la caduta di un potere era seguita a ruota dall’affermazione di un altro più forte, la globalizzazione ha imposto un insieme di legami e rapporti economici, sociali e politici, tali per cui i comportamenti di una comunità o di un intero Paese hanno conseguenze su altri.

L’idea di “interdipendenza” ha costituito idealmente un contributo importante per l’elaborazione di varie proposte di riforma del sistema internazionale, nel senso di rafforzarne i presupposti della pace e della prosperità globale. La prima formulazione coerente di questo principio emerse nel 1944 durante lo storico vertice di Bretton Woods, da cui nacquero quelle organizzazioni economiche internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) che segnarono la via del riscatto e della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale.
L’idea di “interdipendenza” si era sviluppata, allora, in alternativa a quella puramente “liberista”, basata sul diretto perseguimento dell’interesse nazionale indipendentemente dalla considerazione delle conseguenze su altri, e a quella “realista”, fondata sulla soluzione dei conflitti d’interesse imposta dai rapporti di forza e delle sfere d’influenza.

Purtroppo sia la Guerra fredda, come anche la successiva radicalizzazione dei rapporti tra Oriente e Occidente dopo l’11 settembre del 2001, hanno vanificato la declinazione del principio di interdipendenza nelle politiche internazionali. Ecco perché sarebbe auspicabile che in questi tempi di crisi si trovasse il coraggio di attualizzare le conclusioni della Commissione indipendente sui problemi dello sviluppo internazionale, insediata dalle Nazioni Unite e presieduta dallo statista tedesco Willy Brandt, nell’ormai lontano 1978.
Si tratta di una visione imperniata sull’interdipendenza, che costituisce ancora oggi un punto di riferimento ideale per tutti i governi, formulata allora in un rapporto che si apre con queste testuali parole: “È il mondo, oggi, a essere un’unica nazione”.

Queste parole guardano molto lontano e la loro realizzazione ancora oggi rimane insufficiente. Sono parole riprese dal Papa emerito Benedetto XVI nell’enciclica

Caritas in veritate, il cui cap. 5 si intitola “La cooperazione della famiglia umana”, richiamando così il concetto, caro alla dottrina cattolica, di umanità come famiglia e di “famiglia di Nazioni”: “La responsabilità personale fa sì che occuparsi di economia voglia dire pensare agli altri, pensare ai popoli come a una sola famiglia con cui condividere sviluppo e benessere. In questo contesto il n. 67 della Caritas in veritate propone un’ampia riforma della governance mondiale “di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, […] anche in presenza di una recessione altrettanto planetaria”

Quindi per superare questa cultura nichilista e inumana che a livello globale semina dolori e sofferenze inaudite c’è bisogno di una governance mondiale che sappia:

a)”promuovere il governo dell’economia mondiale”: riformare non solo le Nazioni Unite, ma anche le istituzioni finanziarie internazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, e l’Organizzazione mondiale del commercio;

b)”risanare le economie colpite dalla crisi” cf. Caritas in veritate

c)”prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri”: si tratta di una sfida cruciale nell’attuale situazione;

d)”realizzare un opportuno disarmo integrale”: una sfida diventata ormai classica dalla nascita della guerra moderna e ancora più di quella nucleare, che oggi appare ulteriormente complicata e drammatica per l’insorgenza del terrorismo internazionale; e)”contribuire alla realizzazione della sicurezza alimentare”: una sfida che

merita di essere definita cruciale, alla luce delle recenti numerose perturbazioni del settore agroalimentare e della destabilizzazione sociale che esse producono;

f)”Realizzare atti concreti di pace”: un antico desiderio, oggi minacciato anche dall’insicurezza economica.

Carmine Tabarro


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