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Il carisma Shalom alla luce dell’antropologia biblica: una risposta di Dio per la società postmoderna. II° parte

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Finora ho seguito un genere letterario chiamato “a ondate”. Immaginiamo le onde del mare che muoiono sulla riva. Arrivano fino alla battigia, qualche onda va oltre. Nella prima parte ho già dichiarato il cuore fondamentale di questo primo scritto di Moysés: in Opera nuova, con l’intelligenza spirituale intravede che il Signore vuole dare corpo sarx, ad un nuovo carisma, un carisma che sia un dono per la Chiesa e la società postmoderna e che trova la sua eziologia nell’amore.

“Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.

Ma quale amore? “Amerai il Signore Dio tuo […] e il prossimo tuo” (Lc 10,27).

Attenzione il nostro fondatore ci declina l’amore nella linea di Gesù: non è possibile pretendere di amare Dio e, contemporaneamente, disprezzare la sua immagine somigliante – l’uomo, l’altro, il prossimo . Questa realtà è espressa da Giovanni in maniera stupenda nella sua Prima lettera, ed è il vero e proprio vertice del suo “inno all’amore” (cfr. 1Gv 4,7-21): “Se uno dice: Io amo Dio e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20-21).

In altre parole è possibile amare il prossimo senza amare Dio e in questo caso lo stesso Giovanni osserva: “Chi fa il bene viene da Dio” (3Gv 11), anche se non ne ha la coscienza della fede in Cristo.

Ma non è certo possibile amare Dio se non si amano i fratelli, il prossimo, perché chi dice di amare Dio che non vede, il cui volto è sconosciuto, e poi non ama il volto dei fratelli, degli uomini che vede, allora è un bugiardo. Questo amore è nel DNA del nostro carisma.

Faccio un passo in avanti.

“Questo cammino, quindi, è come il cammino di Gesù: esige coraggio, sacrificio, rinuncia, poiché è cammino di croce perché ogni giorno possiamo vivere la Resurrezione. È un cammino di felicità, ma non per questo non avrà le sue barriere, difficoltà, sofferenze. Direi addirittura che, proprio perché è un cammino di felicità, ci sarà tutto questo. Per percorrerlo, dovremo avere tre grandi grazie: CORAGGIO, RINUNCIA E DISPOSIZIONE ad abbracciarlo”.(ON n.1)

Rimanendo ad un altro elemento fondante del carisma, i giovani, Moysés è profondamente consapevole di quanto questi soffrono; soffrono di mancanza di senso, di speranza, di veri affetti, gratuiti, di analfabetismo emotivo, inteso come incapacità di sentire i propri sentimenti e le proprie emozioni.

Non si tratta di giudizi morali, ma di fatti segnalati, con profonda compassione, da buoni accompagnatori spirituali, ma anche dalla medicina psichiatrica.

downloadIl nostro fondatore, all’epoca  dello scritto aveva solo ventiquattro anni, ma già sembra essere conscio che i giovani del nostro tempo sono terra di conquista della cultura relativista, nichilista, elogatrica, consumista, è sono indifesi, incapaci di leggere il loro “cuore” e di come sia “mosso” solo da un ’”istinto” all’azione, spesso svincolato dal proprio vissuto interiore, da una vita interiore invece assetata di senso.

Questa dicotomia crea gravi patologie psichiatriche.

Mi colpisce il fatto che il brano biblico scelto da Moysés in questo scritto, fotografi la stessa situazione dei nostri giovani. Is ci presenta un popolo senza speranza, un popolo che oramai non si lamenta più, ha perso ogni fiducia. Il nostro fondatore grida che c’é un cammino nel deserto (Is 19b-21), che un’opera nuova germoglia nel deserto.

E’ un popolo sordo, cieco, privo di speranza, “sofferente senza averne coscienza” come avviene per molti giovani.

La via che il Signore apre nel deserto, rinnova il prodigio della via aperta nel mare (cf. v.16), indica che esiste una speranza per il popolo.

Moysés allo stesso modo invita i giovani a cercare un senso alla propria esistenza è questo senso è Gesù Cristo Vivente. Vuole che la loro vita sia piena di senso, di felicità. Sappiamo che oggi per molti giovani (e non solo) l’orizzonte è di-sperato perché non trovano un senso. La caratteristica più dolorosa del nostro tempo è la mancanza di speranza. I giovani si sentono in balia del non-senso. Tutto è liquido.

L’idea di società “liquida” è stata analizzata in maniera eccellente dal filosofo e sociologo Zygmunt Bauman. La società liquida inizia a delinearsi con quella corrente detta post-moderno. Il postmoderno segna la crisi delle “grandi idee forte tra cui la religione” che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine, si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche.

Per Bauman tra le caratteristiche di questo presente  si può annoverare la crisi dello Stato (quale libertà decisionale rimane agli stati nazionali di fronte ai poteri delle forze supernazionali?), la liquidità delle relazioni, dei valori dell’amore, della famiglia ecc.. Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie e delle religioni e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.

Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza della famiglia (che viene ibridata in un non senso), alla giustizia (la magistratura è sentita come nemica) ecc.,  le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’”apparire” a tutti costi, l’”apparire” come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle “Bustine”) e il consumismo.

Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).

Crisi delle ideologie, dei valori, delle religioni: qualcuno ha detto che questi ultimi sono ormai taxi sui quali salgono un capopopolo o un capobastone che controllano il potere, scegliendoli con disinvoltura a seconda delle opportunità che consentono – e questo rende persino comprensibili e non più scandalosi le volgarità di ogni genere che ci vengono proposte come forma di “libertà”.

Non solo i singoli, ma la società stessa vive in un continuo processo di precarizzazione. Che cosa si potrà sostituire a questa liquefazione? Ecco il grande dono del carisma Shalom a cui è chiamato. Annunciare la Buona Notizia alla società, alla cultura della liquefazione.

Tutto questo a partire dall’uomo, perché chi ha la fede in Gesù Cristo (che è cosa diversa dalla religione) non può non partire da lui che è l’immagine e somiglianza di Dio.

Nichilismo e pluralismo religioso

Nella società postmoderna e nichilista ci sono oggi due fenomeni che possono apparire all’antitesi con cui l’evangelizzazione si trova a fare i conti: l’”indifferentismo”, frutto del nichilismo della maggior parte degli uomini delle nostre società post-cristiane e il “pluralismo religioso”, dovuto soprattutto al fenomeno epocale delle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente.

Entrambi mettono in crisi non solo le forme e i modi, ma la stessa plausibilità dell’evangelizzazione: sono fenomeni dolorosi per la coscienza credente perché non la contestano frontalmente, non la combattono ma affermano, con il loro stesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere bene anche senza di esso. L’indifferenza religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità, mentre il pluralismo religioso fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversi considerare una proposta tra le altre, senza titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza.

L’Europa cristiana(?) (in particolare l’Italia) che per 2000 anni ha vissuto sarà capace di aprirsi allo Spirito per affrontare questa rivoluzione culturale?
L’indifferenza dalla Chiesa (e non solo) è percepita, come ho detto nel primo articolo,come un ospite inquietante , un intruso indesiderato, una presenza ingombrante di fronte alla quale si è tentati o di rimuoverla con la nostalgia di un mondo popolato da militanti, oppure di condannarla con giudizi sommari e definitivi: così l’indifferenza sarebbe il risultato di un individualismo esasperato, di una cultura incapace di discernimento e contrassegnata da una radicale incertezza….. L’indifferenza di chi è deluso dalle fine delle ideologie, l’indifferenza di ex-credenti frustrati nella loro attesa di un rinnovamento ecclesiale, l’indifferenza dell’homo technologicus convinto di poter dominare tutto attraverso la tecnica appare ai cristiani come enigmatica e grande nemica.

Con Giovanni XXIII, non credo ai “profeti di sventura”, nei ai nostalgici. Anzi questa cultura ci deve stimolare a porci domande per “leggere i segni dei tempi”: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti? Come cristiani, siamo davvero “evangelizzati”, così da poter essere efficaci “evangelizzatori”?

Moysés; “A volte mi ritrovo a domandare al Signore come comunicherò questo nuovo che Egli mi dà per coloro che il Signore aggiungerà. Come potrei trasmettere tutto questo che il Signore ha posto nel mio cuore? Non può essere nella legge, perché la legge uccide.”

Sappiamo aprirci allo Spirito ed esprimere, comunicare davvero la loro Buona Notizia? la “differenza cristiana”? Non dimentichiamo che l’indifferenza cresce a mano a mano che “scompare la differenza”!

Del resto, il cristianesimo è un’”annuncio”, non un’imposizione: “Non di tutti è la fede” (2 Tess 3,2).

Né il cristianesimo pretende di avere il monopolio della felicità, ma affermiamo di trovarla nella vita secondo Gesù Cristo. Il fatto che vi siano atei, indifferenti, allora, non fa che rafforzare la scelta di libertà che sta alla base di una vita cristiana. Il problema serio, se mai, è che non siamo  noi cristiani stessi e le Chiese a produrre atei con degli atteggiamenti disumani e intolleranti, con la pratica dell’autosufficienza, del non ascolto, di contro testimonianza al Vangelo.

Quanto al pluralismo religioso, occorre non essere astratti: non si incontra mai l’Islam o una religione, bensì uomini e donne che appartengono a determinate tradizioni religiose e per i quali questa appartenenza è un aspetto di un’identità molteplice e non monolitica. In questo “camminare accanto”, in questo vivere gli uni a fianco degli altri, i cristiani non devono imboccare vie apologetiche né assumere atteggiamenti difensivi o, peggio ancora, aggressivi, ma devono saper creare spazi di vita e di accoglienza in vista dell’edificazione di una polis non semplicemente multiculturale e multireligiosa ma interculturale e interreligiosa.

Il cammino di evangelizzazione richiede conoscenza dell’altro e della sua fede, capacità “pentecostale” di parlare la lingua dell’altro, di farsi prossimo in senso evangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente, mostrando così di credere nell’unico Padre e di riconoscere la fraternità universale. Di fronte all’altro per lingua, etnia, religione, cultura, usi alimentari e medici, prima di evangelizzare occorre imparare l’alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando concretamente una vicinanza e una sym-patia fraterna.

Nella frase di Moysés è implicita anche la domanda: “Perché evangelizzare”

Nella società liquidità, la cui cultura ha pervaso anche molti cristiani, è inutile negare che oggi il concetto stesso di missione subisce una contestazione e delle difficoltà, a differenza che nel passato, non nascono dal come, ma, ben più radicalmente, dal “perché evangelizzare”.

Non a caso, le domande che risuonano oggi con maggior frequenza sono di questo tipo: se si deve accettare il pluralismo religioso, se ci sono tante vie per giungere a Dio, se la salvezza non dipende dall’essere segnati con il battesimo, allora perché la missione?

Se non può più essere proclamato l’affermazione extra ecclesiam nulla salus, perché cercare di chiamare nella Chiesa i non credenti? Dove sta la “Buona “Notizia”? L’evangelizzazione è l’annuncio che un uomo, Gesù Cristo, ha “narrato” Dio (exeghesato, Gv 1,18) e che proprio quest’uomo, in tutto come noi ma pienamente conforme alla volontà di Dio, può essere per ciascuno un’indicazione efficace per “salvare la propria vita”, per trovare strade che diano senso, per “una umanizzazione vera e piena”. Gesù è “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), ma anche il “Figlio dell’Uomo” per eccellenza, uomo fino all’estremo.

 Sì, c’è un fondamento all’evangelizzazione ed è comunicare Gesù quale vero uomo, perché la sua forma di vita è “Buona Notizia”, cammino di integrale umanizzazione per ogni uomo.
Di conseguenza, non ci sarà missione evangelizzatrice che non si preoccupi di formare uomini e donne in grado di assumere come propria la vita umana di Gesù, vita bella, buona e beata: è nel realizzare questa vita umana conforme a quella di Gesù che anche oggi consiste la più quotidiana ed eloquente forma di evangelizzazione.
Solo chi ha una ragione per cui vale la pena donare, spendere la vita, ha anche una ragione per vivere. E Gesù questa ragione l’aveva: l’amore per i fratelli, il servizio agli uomini: questo è ciò che Gesù ha vissuto realizzando la volontà di Dio nella storia. E questa salvezza che gli uomini evangelizzati possono sperimentare già qui e ora troverà la sua pienezza nella risurrezione già ora e per la vita eterna.

Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione: in questa narrazione dell’amore che è stato Gesù, morto per gli uomini tutti e risorto in forza dell’amore vissuto fino all’estremo. Evangelizzare non è innanzi tutto portare una dottrina, comunicare verità: è raccontare, “narrare”, “vivere” Gesù Cristo come colui che ha “evangelizzato” Dio – lo ha, cioè, reso una “Buona Notizia” – e ha evangelizzato l’uomo, vivendo egli stesso nella storia e nella condizione umana e rivelando così a ciascuno la sua autentica natura di “salvato”. Mentre noi eravamo e siamo peccatori, Gesù ha dato la sua vita per noi; mentre eravamo e siamo nemici di Dio, Dio ci ha riconciliati con lui attraverso suo Figlio Gesù Cristo (cfr. Rm 5,6-11).
È di questa verità-esperienza che noi cristiani siamo chiamati ad essere testimoni e annunciatori autentici tra gli uomini del nostro tempo.

Moysés, nella genesi del carisma è già nel pieno del progetto del Padre: questa la ragione dell’annuncio dell’Vangelo e della sua necessità. Questo linguaggio resta ilproprium del cristiano in mezzo alle altre religioni e di fronte all’indifferenza: una Buona Notizia capace di toccare il cuore degli uomini del nostro tempo, chiusi nelle loro isole d’indifferenza,  perché Gesù, che nella sua umanità racconta il Padre, non è estraneo all’uomo in ogni stato. Gesù il Signore, infatti, è misteriosamente impresso in ogni uomo, come annuncia Giovanni l’Evangelizzatore: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete” (Gv 1,26)

Carmine Tabarro

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