Formazione

Amore e bene comune‏

comshalom

Il verbo “amare”, non solo nella lingua italiana, si adopera per riferirci a relazioni di tipo diverso.

Traduciamo dal greco che Paride amava Elena, la moglie di Agamennone, che Achille amava Patroclo, suo amico, che i primi cristiani erano riconosciuti per come si amavano.

Ma questa traduzione tradisce il senso vero del greco antico. Difatti i greci usavano tre parole diverse per declinare il verbo amare: eros, philia e agape. Quindi l’amore di Paride verso Elena era eros, quello di Achille verso Patroclo era philia, quello dei cristiani delle prime comunità cristiane era un amore fraterno e totale, agape.

E’ bene ricordare che gli autori del Nuovo Testamento quando dovettero parlare dell’amore cristiano crearono una parola nuova, agape, una termine praticamente non usato dalla cultura greca che preferiva eros e philia.

In altre parole la parola amore rifiuta la reductio ad unum, tipica dei blog e di un certo tipo di stampa e di comunicazione e dovrebbe essere declinata a seconda della sua forma e del suo contenuto.

Questo handicap nel lessico italiano, non riesce designare le diverse relazioni differenziate dell’amore, trovando un ulteriore avversario nella cultura postmoderna, perché, anziché dare vita a nuove parole per coniugare i diversi modi dell’amore, privilegia le semplificazioni e anche i riduzionismi, fino a trasformare la parole amore in un feticismo patologico.

Questo è testimoniato dal successo del termine eros nella cultura globalizzata a danno degli altri due termini, in quanto la parola eros è stato relativizzato a narcisismo, ad un oggetto di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé.

Le basi filosofiche di questa deriva vanno ricercate nella sublimazione, ossia l’idea che il desiderio e il possesso patologico, possa costituire di per sé un elemento emancipativo, come elaborato dalla rivoluzione dionisiaca nietzschiana, secondo la quale l’uomo tragico, anti razionale e anti socratico per eccellenza, fosse l’uomo desiderante.

Ma la storia con fatti impietosi sta dimostrando che questa rivoluzione del desiderio che avrebbe dovuto condurre l’uomo all’emancipazione, trasforma l’uomo in schiavo del desiderio e del possesso alimentando un circuito vizioso tale per cui attuare una rivoluzione desiderante coincide con l’attuare la dittatura del desiderante, nel senso che il desiderio diviene strumento di controllo sociale e legittimazione di azioni inumane. D’altronde viviamo in un mondo in cui tutto è dettato dal profitto senza etica e dall’ultimo modello di Iphone sul mercato, in cui siamo portati a sentirne il bisogno (e quindi a desiderarlo).

La cultura postmoderna emargina il concetto di philia; in altre parole coniuga il termine amicizia, il più delle volte, solo tra persone conosciute con cui abbiamo relazioni strumentali. Mentre il termine agape viene relegato solo alle isole comunitarie, incluse le sette esoteriche, che declina concetti ontologicamente in antitesi alla cifra culturale cristiana.

La nostra cultura ha bisogno di ridare senso e contenuto alle diverse relazioni.

Dobbiamo fare un’operazione di ecologia semantica e di senso nel declinare i vari tipi di amore, ad esempio l’amore narcisistico è diverso dall’amore per lo sposo/la sposa, l’amore per i figli e diverso dall’amore per i genitori, l’amore per la propria nazione, comunità, gruppo, lobby ecc., è diverso dall’”amore (caritas) universale” di cui parla Paolo VI nella Populorum Progressio.

Per prima cosa dobbiamo prendere coscienza dell’avvento

della post-modernità e della radice filosofica di cui abbiamo parlato prima, che Z. Bauman definisce “liquida”, con tutte le sue conseguenze: le cifre valoriali tradizionali sono state sostituite da surrogati di valori “gassosi e liquidi”. Nella sua prima Enciclica, Deus caritas est,

Benedetto XVI analizza e fa delle proposte lucide alla società di oggi e alla sua cultura, che evita i legami duraturi ed i rapporti duraturi, dalla fedeltà alla totalità dell’amore. “Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore ablativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere” (n. 7). “Dio ci ama, ci ha amati e continua ad amarci per primo e non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. I sentimenti vanno e vengono e non sono la totalità dell’amore»”(cfr. n. 17).

L’eros non si può sepa­rare dall’agape, pena il tradimento dell’uomo integrale.

Concretamente allora l’amore è relazione è la cura dell’Altro non in quanto puro individuo, ma in quanto persona in/di una relazione che non potrebbe esistere senza di lui. Questo significa prendersi cura dell’Altro prima ancora che la relazione si instauri per fini strumentali o particolari.

L’amore nella cifra cristiana è condividere, è cercare assieme le soluzioni, è evitare conflitti strumentali o pregiudiziali: l’amore è prima di tutto un incontro con l’Altro nella sua dimensione trascendente e incarnata.

Certamente l’amore cristiano non si declina come scambio commerciale di utilità con l’Altro.

Lo straniero, il nemico, non esiste più, si diffonde la cultura dall’Io al Noi (we relation): la persona esiste ed è amata solo in questa relazione.

Per riuscire in questo cammino dobbiamo lasciarsi alle spalle il complesso dell’amore delle emozioni patologiche che ha caratterizzato tutta la modernità e gran parte della postmodernità.

Allo stesso tempo dobbiamo aprirci e promuove tutte le possibili forme dell’amore, fra cui quella della fraternità inclusiva, della gratuità, del dono, dell’agape, dell’eros, le quali devono essere declinate e vissute insieme.

Attenzione al comunitarismo tribale. Mentre l’individualismo postmoderno sperimenta la perdita dei confini insieme con la perdita del limite, per cui tanta illimitatezza porta le persone a fare l’esperienza dell’insicurezza, della paura, della “liquidità” e allo stesso tempo del narcisismo, cifre che descrivono l’epoca che stiamo vivendo, queste stesse persone si rifugiano nell “mito della comunità” (anche religiosa), dove viene esaltato la tribalizzazione, l’assolutizzazione delle differenze e dell’uniformità; tutto questo porta alla sconfessione dell’Altro. Insomma, sia che si tratti di individualismo che di comunitarismo, quello che si perde è l’Altro.

Siamo incapaci, come dimostra lo stato di crisi permanente, di vivere il bene comune, la fraternità, il dono, la gratuità che è l’Altro in senso generale e specifico o anche solo di condividere il senso comune con l’Altro.

 

di Carmine Tabarro

Zenit.org


Comentários

Avviso: I commenti sono di responsabilità degli autori e non ripresentano

O seu endereço de e-mail não será publicado. Campos obrigatórios são marcados com *.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.