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Il carisma Shalom alla luce dell’antropologia biblica: una risposta di Dio per la società postmoderna. I° parte

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 primeiro_centro_evangelizacao-300x196Premessa

Da sempre nella storia della Chiesa, i fondatori e le fondatrici di realtà comunitarie ecclesiali,  sono mossi dallo Spirito santo, dal di vivere in maniera incarnata (nella storia del proprio tempo) la parola di Dio. Generalmente queste donne e uomini sono chiamati a conversione da particolari passi evangelici o biblici e si ritrovano a fare la stessa esperienza di Ez 36,27 in cui afferma: “Porrò il mio Spirito dentro di di voi…”.

Dalla Parola, Dabar (ebraico), Lógos (greco) allo Spirito, dal respiro Ruah (ebraico) , dal soffio di Dio su di loro prende forma il fondatore, il  carisma e le basi delle opere che con essi le animano, le gemmano. È questa la dimensione fondamentale di un carisma nella Chiesa. La fondazione del carisma Shalom si ritrova in questo quadro.

Faccio un passo in avanti. Poco prima ho scritto che questa riflessioni non hanno la pretesa esaustiva di narrare il carisma Shalom. Difatti per poter dire “secondo me” il carisma Shalom ha questi tratti, questi doni ecc., dovrei avere avuto una comunanza di vita con Moysés. Siamo nati nello stesso anno1960, ma lui è nato e vissuto in Brasile, io in Italia. Permettetemi una battuta: sapete qual’è il Vangelo più citato? Qualcuno risponderà quello secondo Lc, altri secondo Gv, altri ancora secondo Mt o Mc. Purtroppo nella nostro cultura individualista, del Super-Uomo, della presunzione, della superbia, il Vangelo più citato è quello“secondo me”, senza avere l’umiltà di dire di non conoscere, di essere limitato, di non poter dire cose che non si conoscono.

Allo stesso tempo sono convinto  che per “comprendere” un carisma, un “fondatore” la prima cosa da fare non è “conoscere” i suoi scritti. Questo è a mio avviso un grande errore. Ciò che è più importante non è quello che lui ha scritto, ma è quello che lui ha vissuto, quello che ha fatto. Moysés non ha ricevuto questo dono perché ha scritto cose belle. Nella storia della Chiesa ci sono persone, spesso neanche sante/i, che hanno scritto cose molto più belle di lui. Moysés ha ricevuto questa grazia dal Signore perché si è lasciato “respirare dallo Spirito santo”. Ha vissuto e vive una vita immersa nella sequela e nel servizio del Signore Risorto.

Quindi il primo e fondamentale “luogo teologico” dove noi possiamo “conoscere” il carisma donato ad un fondatore, è la vita della persona, è la persona, non  i suoi scritti. Poi vengono anche gli scritti. Ma prima è fondamentale sapere cosa ha fatto, come ha vissuto. Lasciare queste documentazioni è un compito fondamentale dei fratelli e sorelle della prima ora.

maxresdefaultNel nostro caso, per grazia di Dio, Moysés è in vita, è  una persona viva e per “comprendere” profondamente il carisma dobbiamo vedere la sua vita, la sua quotidianità: il carisma è un’esperienza di vita viva. Il carisma non è una definizione, non è una cosa, non è un blocco ideologico, un blocco spiritualista caduto dal cielo sulla vita di una persona.

Il carisma è un vissuto, è un’esperienza che un fondatore, comunica, narra con la sua vita quotidiana. Allora se voglio penetrare in profondità il carisma debbo conoscere che cosa egli ha vissuto. Ripeto questo compito fondamentale spetta ai fratelli della “prima ora”. Attenzione non abbiamo bisogno della cattiva agiografia, ma della vita vera.

Apro una parentesi: se dicessi che ho trovato il certificato di nascita di s.Teresa d’Avila, o di S.Giovanni della Croce o di S. Ignazio di Loyola presso il comune dove sono nati, siamo dinanzi ad un documento vero o falso? Nonostante mi fosse portato l’originale scritto a mano del comune dove questi tre santi sono “registrati”, direi che questi documenti sono falsi. Perché?

Perché la registrazione nei comuni o come si chiamano nei vari Stati è iniziata solo dopo Napoleone. In precedenza questi documenti erano presenti solo nelle parrocchie dove le persone venivano battezzate. Ecco perché è importante la fedeltà ai fatti, per rendere credibile il fondatore e il carisma. Chiusa parentesi.

Quindi solo dopo aver approfondito la vita del fondatore posso iniziare a questo posso leggere in profondità i suoi scritti, che m’illuminano la conversione e l’esperienza di Dio che ha fatto. Voi ricordo che ci sono fondatori che non hanno scritto niente, iniziando da Gesù. Oppure ci sono fondatori i cui scritti sono andati persi nel corso della storia.

Quindi è fondamentale “conoscere” come è vissuto, cosa ha fatto, come ha incarnato il Vangelo il nostro fondatore. Per questo ho detto che le mie riflessioni non saranno esaustive.  Conosco Moysés, ma la mia “conoscenza” è troppo superficiale non per colpa di nessuno dei due, semplicemente viviamo in continenti diversi. Se da un lato non conosco nei particolari la sua vita, dove ha vissuto, come ha vissuto ecc, posso però testimoniare quel (purtroppo) “poco” che il Signore mi ha concesso di vivere con lui.

Inculturazione del carisma Shalom

In questo scritto, che spero sia il primo di una serie, leggeremo il carisma Shalom, il suo “concepimento” alla luce della Parola di Dio e come questo carisma abbia molte risposte per i giovani, le donne e gli uomini della società tecnonichilista. Preciso volutamente questa parola tecnonichilista perché questo carisma può dialogare con le persone del nostro tempo che come afferma papa Francesco sono afflitte da una società indifferente e malate diAlzheimer spirituale.

L’inculturazione  è un tema sfidante. Come detto Moysés e il carisma Shalom sono gemmati a Fortaleza (nel nord-est del Brasile). Già prima del riconoscimento Pontificio di associazione privata internazionale di fedeli laici avvenuta il 22 febbraio 2012,  il carisma Shalom era presente, come “sale, luce e lievito” in quasi tutti i continenti. Quindi il tema della inculturazione era, ed è, ben presente per evitare gli errori compiuti, spesso in buona fede, dai tanti missionari europei nei secoli scorsi sono  partiti per l’evangelizzazione portando con loro categorie teologiche, filosofiche, culturali, sociali estranee ai paesi dove erano “mandati” a portare la Buona Notizia del Regno di Dio.

Pertanto per cogliere e “conoscere” i vari tratti e doni del carisma Shalom  (fondati sulla parola di Dio) c’è bisogno di inculturarli nei paesi dove i nostri missionari sono “chiamati”. L’inculturazione non significa perdere la ricchezza e la specificità del carisma, tutt’altro: significa valorizzare il carisma con le voci di chi vive quotidianamente queste realtà tra loro spesso molto differenti. Accogliamo l’invito di papa Francesco che nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (EG), ai nn. 68-70 scrive delle “Sfide dell’inculturazione della fede”.

L’inculturazione della fede rappresenta una delle principali sfide legate all’evangelizzazione. Come ebbe a dire in Kenya nel 1980 san Giovanni Paolo II: “L’inculturazione sarà realmente un riflesso dell’incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano”.

In parole più semplici, possiamo dire che l’inculturazione appartiene alla logica stessa dell’incarnazione. Non solo perché il messaggio evangelico dev’essere sale, lievito, seme, luce, ma anche perché la stessa parola di Dio non è un blocco celestiale caduto dal cielo, una summa di teoremi teologici preconfezionati ed efficienti per ogni stagione.

La parola di Dio è un seme cresciuto che ha preso forma nella terra della sarx, cioè in quella carne di cui parla il prologo del Vangelo di Giovanni. Una carne che ha il volto della storia e della cultura umana. Il Primo Testamento è declinato da un confronto dinamico con le civiltà del suo tempo: dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica.

E anche il cristianesimo si è vivacemente confrontato col giudaismo palestinese (sia cristiano che ebreo) e della diaspora, con la cultura greco-romana, con le forme gnostiche e cultuali pagane.

Sempre san Giovanni Paolo II, nel 1979  alla Pontificia Commissione Biblica, affermava che, prima ancora di farsi carne “la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche”.

Quindi l’inculturazione è molto più di un semplice metodo da adottare per convincere gli altri.
Sì, l’inculturazione non è una tattica missionaria, ma una dimensione strutturale alla fede stessa. La Rivelazione biblica è frutto del congiungimento tra il Logos e la sarx – tra il Verbo e la carne – in analogia con quanto accade nel Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’umanità.

Non solo, mi sembra importante che papa Francesco abbia ribadito il rapporto di reciprocità che intercorre tra l’evangelizzazione della cultura e l’inculturazione del Vangelo -“È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo”(EG n.69) -a sottolineare il carattere decisivo di questo incontro concepito come dono che possiamo accogliere o rifiutare.

Solo così ci saranno frutti di umanesimo e oggi, senza dubbio, abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Un carattere profetico di papa Francesco, è il radicamento popolare dell’inculturazione del Vangelo. L’evangelizzazione della cultura, in effetti, non è cosa di una élite intellettuale, ma di popolo, altrimenti non metterà mai radici.

Lo scritto Opera Nuova

L’incipit iniziale del fondatore della Comunità Cattolica Shalom, l’allora giovane Moysés Louro do Azevedo Filho, siamo nel 1984 (Fortaleza, Brasile) lo ritroviamo nella breve lettera Opera Nuova che cerca di delineare i primi tratti, i primi segni del carisma. Moysés ha ventiquattro anni, ma già in questo scritto si sente la forza, la grazia di Cristo  aleggiare in queste righe. E’ un giovane chiamato da Dio, per questo inquieto e dominato dallo Spirito santo.

Il 9 luglio del 1980, durante la Messa di apertura del X Congresso Eucaristico brasiliano, tenutosi a Fortaleza, Moysés è “chiamato” per presentare la gioventù brasiliana al papa Giovanni Paolo II, in occasione della sua prima visita in Brasile. Moysès presenta al papa una lettera in cui offre la sua vita e la sua gioventù per l’evangelizzazione dei giovani e di tutti coloro che sono lontani da Dio.

Questo è il presupposto storico in cui Moysés si sente sempre più spinto ad accogliere il dono della fondazione e lo scritto Opera Nuova ne è la testimonianza. La lettera è provocata dal brano biblico di Is 43,19-21. Questo brano non è solo la “miccia” ma è anche la bussola di Opera nuova.

Leggiamo insieme.

“Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.”

Inquadramento storico del brano biblico.

Con i capp.40-55 siamo alla presenza di un profeta anonimo dallo stile diverso e originale, convenzionalmente chiamato dagli esegeti Secondo Isaia. Il profeta anonimo, viene considerato dagli studiosi un poeta-teologo (riflessivo, lirico, a volte eccessivamente ricco di parole ma sempre passionale e ottimista) che vive come esule a Babilonia e si richiama alla scuola profetica di Isaia di Gerusalemme, vissuto 150 anni prima di lui.

Durante quel lungo periodo erano avvenuti cambiamenti politici, sociali e religiosi profondi: nel 612 a.C. era caduta Ninive, capitale degli Assiri, e si era consolidato il nuovo impero babilonese; nel 587 a.C. Nabucodonosor aveva distrutto Gerusalemme e deportato a Babilonia le classi dirigenti ebraiche. Il regno di Giuda non esisteva più ed erano iniziati i 70 anni dell’esilio babilonese. Il Secondo Isaia – inizia il suo ministero di consolazione nei dieci anni che vanno dalle prime vittorie del re persiano Ciro (548 a.C.), fino alla distruzione di Babilonia e al successivo editto di liberazione degli ebrei (538 a.C.).

La sua predicazione (probabilmente completata e arricchita in seguito dalla scuola dei discepoli di Isaia a cui lui apparteneva) è chiamata dagli studiosi “Il Libro della consolazione” perché ha lo scopo di sostenere la speranza del ritorno in patria degli Ebrei in esilio a Babilonia, interpretando positivamente i segni di cambiamento che stavano avvenendo nel panorama politico del tempo. Tra gli ebrei di seconda generazione, residenti a Babilonia (figli o nipoti dei primi deportati) c’erano valutazioni contrastanti circa l’ascesa al trono di Ciro e le mire espansionistiche dell’impero persiano. Molti temevano una nuova persecuzione e di perdere le posizioni di “sicurezza” raggiunte a Babilonia.

Il Secondo Isaia invece – come ogni poeta-profeta che si ispira alla parola di Dio – “leggeva i segni dei tempi” e intravedeva un futuro di liberazione e di speranza che, attraverso Israele rinato dalla morte dell’esilio, avrebbe coinvolto tutte le nazioni della terra. Riprende perciò i messaggi positivi del grande Isaia di Gerusalemme e canta il sogno-attesa del ritorno in patria, per ricostruire il regno d’Israele attraverso una nuova Alleanza nello Spirito e nella fedeltà alla parola di Dio. La sua poesia esprime un grande entusiasmo e una forza evocativa non comune, cercando di coinvolgere nelle sue speranze-attese anche gli altri esiliati (molto conservatori e depressi) con i quali vive a Babilonia.

La lettura di Moysés di Is  43,19-21

Ho voluto questo inquadramento biblico per poter fare insieme alla lettura che ne fa il fondatore, come questa lettura è una profezia per il nostro tempo.

Moysés all’inizio dello scritto afferma: “Il Signore nostro Dio, che merita tutto l’amore del mondo, realizza un’opera in mezzo a noi: un’opera nuova, un cammino nuovo. Questo cammino è reale ed ogni giorno che passa sento che si concretizza più fortemente nel mio cuore. È qualcosa di nuovo, è qualcosa di meraviglioso”., facendo eco a Is“Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.

Qual’è l’Opera nuova.. che germoglia che Moysés intravede?

Sicuramente inizia a intravede i primi tratti maestosi del “dito” di Dio che inizia a scrivere il carisma Shalom. Ma ancora più in profondità cosa Dio vuole mettere nella parte ontologica del carisma Shalom? In questa Opera nuova ….che germoglia c’è il dono più profondo che Dio ha fatto al carisma Shalom: riscoprire che l’amore di Dio, a Dio e al prossima è la regola aurea del carisma

Ricordo che nell’ebraico del Primo Testamento il verbo amare è ‘aheb. Ma è amore anche racamìm, “viscere materne”, hésed “fedeltà, tenerezza, passione, amore”. Nel Nuovo Testamento invece abbiamo la categoria dell’agape, che sostituisce l’eros con il quale si indicava l’amore passionale da parte della cultura greca e egoistico, individualista, consumistico nell’attuale cultura.

Per me questa Opera nuova che germoglia di cui leggendo, pregando Is,  Moysés scrive è una risposta per la nostra società tecnonichilista europea. Come i figli d’Israele, anche noi siamo schiavi di un sistema che san Giovanni Paolo II chiama “struttura di peccato”Sillicitudo rei socialis che coinvolge in maniera trasversale la dimensione politica, sociale, antropologica, pedagogica e in qualche caso anche ecclesiale.

Ma Moysés in linea con il profeta sembra  percorrere un andamento argomentativo del tipo chiamata-risposta.

“Dio vuole ardentemente aprire un nuovo sentiero nel deserto e così formare un popolo, un popolo eletto, formato dalle sue mani perché lo attraversi, lo percorra, lo assuma nel proprio vissuto. Siamo noi questo popolo Dio ci ha chiamato a questa magnifica vocazione.” ivi 1).

Il carisma Shalom ha come mandato specifico i giovani, ma come spesso accade lo Spirito santo soffia e respira nei posti più impensati, spesso come dice papa Francesco nelle periferie del mondo. Mi soffermo però sui giovani e in particolare sui giovani europei. Tra i giovani europei è presente un “ospite inquietante”, una patologia inquietante: il nichilismo.

A dare il nome all’ospite inquietante è stato lo scrittore russo Ivan Sergeevic Turgenev (1818-1883), a partire dal quale il nichilismo si è fatto strada nel Romanticismo e nell’Idealismo, ha contaminato il pensiero sociale e politico francese e tedesco, ha animato l’anarchismo e il populismo del pensiero russo, ha proclamato la morte di Dio con Nietzsche, aprendo quella cultura della crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto che, come dimostrano sempre più frequenti episodi di cronaca, sembra pervadere e segnare le loro esistenze, conducendoli in taluni casi a comportamenti-limite.

Sono gli stessi sociologi che ci mettono in guardia e denunciano “la morte del prossimo”. Luigi Zoja giustamente avverte: “Nietzsche aveva profetizzato la morte di Dio, ma oggi in realtà è arrivata la morte del prossimo”. E io aggiungo che se è morto Dio ed è morto il prossimo, allora è impossibile vivere il comandamento cristiano sintesi di tutti gli altri (cf. Mc 12,28-34 e par.).

Se riflettiamo in maniera non moralistica sui drammatici eventi di cronaca – dai sempre più frequenti episodi di bullismo e violenza fino alla fascinazione esercitata dalle droghe ci accorgiamo dell’elevato disagio giovanile, che investe anche e  in primo luogo i genitori ed educatori, educatori cristiani ecc., vale a dire, a quelle figure che avrebbero in teoria la “capacità”  di riconoscere nei gesti, nelle parole e nelle reazioni dei loro figli e allievi quell’ospite inquietante e ingombrante, e il cui compito precipuo risiede nell’aiutarli a “metterlo alla porta”, vale a dire, nel guidarli alla “riappropriazione del proprio sé”.

segue lunedì prossimo 20 luglio 2015

Carmine Tabarro


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