Moysés:“ogni giorno possiamo vivere la Resurrezione”: fermiamoci qui su questo caleidoscopio. In questa affermazione ed in altre affermazioni di Moysés, che vedremo tra breve vedremo, ci “leggo” delle immagini che rimanda a Paolo, agli evangelisti e in prima istanza al Cristo Risorto.
Primo punto. Moysés in linea con Paolo ci presenta come l’esperienza pasquale si ripete interrottamente. A iniziare dal cap. 9 degli Atti, Paolo ci dice: “La Pasqua per me è brillata quel giorno, mentre stavo camminando verso Damasco”.
Paolo si trova a Damasco sulla “Strada Diritta” (è l’unica strada ad essere citata per nome nell’intera Bibbia cfr. At 9, 10-19) è fa l’esperienza che il respiro del Cristo si impossessa di lui. Questa esperienza ha segnato così profondamente Luca, “collaboratore” di Paolo, che per tre volte ci testimonia questo evento di “resurrezione”: Atti cap.9; cap.22;cap.26.
Paolo ci dice: ”Io sono stato afferrato da Cristo” (Fil 3,12). Ancora. Usando l’immagine della spada, Paolo afferma:” “Io sono stato afferrato da Cristo Gesù” (Cor 15,8; Gal1,16; Fil 3,12).
Detto in altri termini, e siamo dinanzi ad un aspetto di antropologia biblica fondamentale, all’inizio dell’incontro con Cristo c’è “un’epifania”. L’incontro del Cristo risorto non è frutto della mia ricerca ma del suo farsi vedere. Nella lettura profonda dello scritto Opera nuova, si intravede che Moysés ha fatto questa profonda esperienza di “epifania” con il Cristo Risorto: c’è un “prima” e un “poi”.
Prima aveva gli “occhi e non vedeva”, come Paolo, viene condotto a Damasco e per tre giorni non è in grado di “vedere”, di bere, di mangiare. Questa esperienza di sofferenza e di cecità l’ha vissuta anche il nostro fondatore nei primi anni della comunità.
Moysés fa questo cammino di profonda metànoia, “conversione”. Il suo significato letterale è: “cambiare mente”, trasformare la mentalità, per cui le scelte umane passano dal male al bene, dalla menzogna alla verità, dall’ingiustizia all’amore, dal mio progetto al progetto di Dio.
Dalla cecità alla luce vera. un’Opera nuova appunto. Paolo ci direbbe ancora oggi: a Damasco sulla “Strada Diritta” io ho incontrato il Cristo Risorto, o meglio, ho incontrato la Pasqua.
Per grazia di Dio, Paolo, è Moysés in questa generazione, non ci parlano della resurrezione solo come un evento avvenuto oltre duemila anni fa in un misterioso giardino della d’Israele, in un luogo di sepoltura, in una notte o in una mattina del primo giorno della settimana a Gerusalemme.
Le parole di Moysés, lette alla luce di Paolo ci dicono: “La Pasqua per me è brillata quel giorno, mentre stavo camminando verso Damasco”. L’esperienza che Moysés ha avuto è stata una vera esplosione interiore al punto che scrive: “Abbiamo bisogno di avere coraggio, molto coraggio per questo, dobbiamo rinunciare a quel che è vecchio ed avere la vera disposizione di camminare dal vecchio al nuovo, con ogni ardore e fervore, sapendo che il Signore ci dà la VITTORIA!”(ON n.3). L’esperienza di resurrezione ha diversi volti, ne voglio rappresentare tre.
La prima, del filosofo e teologo protestante Soeren Kierkegaard che alla data 16 agosto 1839, nel suo Diario invocava: “Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei travisamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini!”.
La seconda: nella mia esperienza di vita. Sin da giovane nel “cuore” c’è questo continuo disvelarsi del “Volto” di Gesù Cristo. Non ho fatto l’esperienza di rimanere folgorato da una voce celeste, come accaduto a Paolo (non so per Moysés), quanto piuttosto in una serie di dolorose, felici, sofferte, gioiose, pacate e delicate “epifanie” che si sono manifestate fin dall’infanzia.
E in maniera soave esse sono entrate nella mia vita interiore, allora (quando ero bambino) in forma semplice ed esile – ma già con un senso intenso della fragilità della vita e delle cose, e nel fluire del tempo facendomi vedere dell’inconsistenza della mondanità e come Gesù mi dissetava, fino all’incontro con il carisma Shalom che mi ha donato la rinascita dall’alto. L’effusione dello Spirito Santo è causa prima di “rinascita” spirituale, la stessa che Gesù proponeva a Nicodemo, perché fosse capace di stupirsi delle meraviglie e delle novità dello Spirito.
Nonostante la mia formazione e il cammino nella fede, il carisma Shalom, mi ha donato la grande esperienza dell’effusione dello Spirito santo, e come lo Spirito eserciti, pur nella precarietà quotidiana, un’azione potente nella sfera più intima del mio essere.
Il carisma Shalom, in questi sei anni ha reso vera la parola di Dio espressa in Paolo: “Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me!” (Rom 10,20). Difatti dopo un lungo cammino di fede credevo di essere a posto e mi ero con il cuore seduto sulle mie sicurezze.
Ma il Risorto ancora una volta ha “afferrato” (Fil 3,12) e mi ha fatto l’esperienza dei discepoli in Gv 20,19-31. Anche il mio cuore era chiuso “per paura dei giudei” (dià tòn phóbon tôn ioudaíon); i miei giudei, erano i miei peccati, il mio cuore schlerocardico, la mia superbia, il mio egoismo.
E’ due esperienze per me sono state ontologicamente di resurrezione:
-La prima:“Alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 22)
Nella comunità ho iniziato a sperimentare la verità di questa “verità”. Conoscevo culturalmente il concetto sullo Spirito santo, la varie letture teologiche, ma farne l’esperienza vivente mi ha posto su un altro piano.
Quello di essere un corpo in cui “respira lo Spirito santo”. Fare l’esperienza quotidiana che lo Spirito santo è il “soffio” della vita, il “respiro” che accompagna le mie giornate piene di combattimento. Ma il vertice il Signore me lo ha donato quando ho vissuto l’esperienza del Cristo risorto: io fragile peccatore chiuso nella stanza del mio io e lui contro ogni mia programmazione è entrato nel mio profondo è ha “soffiato” sul cerchio della mia morte ontologica donandomi la vita nuova, l’Opera nuova.
Poi nell’ascolto del Signore risorto, grazie al cammino Shalom, lui mi ha fatto riflettere che la “Ruah”, è il suo respiro che dalla morte ti porta alla vita, dall’uomo vecchio ti gesta all’uomo nuovo.
La “Ruah” in ebraico è una parola femminile, che proviene dalla parola “racamìm”che letteralmente traduce l’utero materno, il grembo materno fecondo durante le doglie del parto.
Qui il Signore mi ha mostrato il suo Volto Misericordioso, che come una madre, soffre per me, per i dolori del parto alla vita nuova. Lasciamo soffiare su di noi il Suo Spirito, questo ci permette di “vedere” come da morti che eravamo, diventiamo “uomini nuovi”. Lasciamolo “respirare in noi”, riempiamoci della sua “Ruah” che è traboccante del suo amore misericordioso.
-La seconda: -“Gesù disse loro: “Pace a voi!” “Shalom Aleichem!”.Gv 20,19-21
-Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo in casa, e Tommaso era con loro. Gesù venne a porte serrate, si presentò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” “Shalom aleichem!”. Gv 20,26.
Questi due termini, sono due aspetti del Volto del Cristo Risorto. Io che vivevo e vivo in un molto altamente competitivo, ho compreso con l’intelligenza della fede, che il dono della Shalom che non è solo assenza di conflitti, divisioni, ecc.. Shalom è prima di tutto e soprattutto gioia, lode, benessere, pienezza di vita per coloro che si lasciano abitare dalla “Ruah”, dal respiro del Risorto, è la creazione dell’uomo nuovo.
Per questo il Signore soffia sui suoi riuniti attorno a lui, così come il Creatore soffiò (“Ruah) nelle narici di Adam l’alito della vita. Gesù “soffia” nella vita di coloro che credono in lui il suo stesso Spirito, la sua stessa capacità di amare- shalom i fratelli, consegna a noi lo Spirito santo, la Vita stessa di Dio, lo Shalom del Padre.
Ecco l’Opera nuova che il Signore sta facendo con me, in me, per gli altri, pur in tutte le mie fragilità, i miei dubbi, l’esperienze di notti spirituali. Potrei continuare con la mia testimonianza dell’Opera nuova che carisma Shalom sta compiendo in me, ma devo rimanere al tema dello scritto di Moysés
La terza testimonianza, è quella di S.Teresa del Bambino Gesù. Il 30 settembre 1897, ultimo giorno della sua vita terrena, si rivolge alla Madre superiore e gli dice: “Madre mia non sento più il Signore,… non morirò?… “Sì, mia povera piccola, è l’agonia… e guardando il suo Crocifisso Teresa disse: Oh! lo amo! Mio Dio… quanto ti amo! Improvvisamente, dopo aver pronunciato queste parole, cadde piano all’indietro, la testa reclinata a destra e morì”.
Tutto questo per dire che la fede cristiana non è un’ideologia, una filosofia, ma è un cammino di fede in cui possono esserci anche dei momenti in cui non “vediamo nulla”.
Come per i discepoli, come vedremo tra poco è “normale” vivere momenti di aporia. Per questo motivo Moysés ci dice nello scritto che per incontrare il Risorto dobbiamo chiedere sempre tre grandi grazie: CORAGGIO, RINUNCIA E DISPOSIZIONE ad abbracciarlo.
Dopo aver letto (sopra) l’esperienza di Moysés attraverso Paolo, ora lo vedremo attraverso l’esperienza dei discepoli.
Moysés ci invita ad avere CORAGGIO. Dobbiamo avere coraggio perché non è “facile” riconoscere e seguire il Risorto confuso tra la folla di Roma, Parigi, Fortaleza o di qualsiasi altra metropoli della società globalizzata dominata dalla tecno capitalismo; dobbiamo avere CORAGGIO.
Dobbiamo avere lo stesso coraggio delle le donne che si recano alla tomba in cui era stato deposto Gesù nell’alba di quel primo giorno della settimana e la trovano vuota; il corpo di Gesù non era più là. Non solo le donne, ma poi Pietro e l’”altro discepolo” che vanno al sepolcro, e così tutti quelli che volevano rendersi conto, potevano vedere effettivamente un sepolcro vuoto. Luca dice che allora le donne restarono perplesse, “en tó aporeîsthai” (Lc 23,4): fanno l’esperienza dell’aporia. I momenti di buio, fanno parte dell’esperienza di sequela del Risorto.
Le donne dinanzi alla tomba vuota sono in una situazione di sospensione, potremmo anche dire che sono in una situazione in cui avrebbero potuto dire tutto è finito. La traduzione italiana della CEI che abbiamo ascoltato dice: “Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo” (Lc 23,4) è già una traduzione che va oltre, dà già una interpretazione. Luca invece ci dice, che le donne e i discepoli hanno fatto un’esperienza di vuoto una sospensione. Le donne avevano visto Gesù morto, avevano visto il suo cadavere deposto nel sepolcro: come è possibile che non ci sia più? C’è una sospensione, uno stato di smarrimento, fanno per la prima volta l’esperienza dell’Assenza.
Quanta è durata l’esperienza di Assenza, di sospensione? Nessuno può dirlo con certezza. Ad esempio Lc che ha una preoccupazione liturgica ci dice che è durata quaranta giorni. Gesù sale al cielo, ma Luca è costretto a dirci che alcuni discepoli ancora non credevano (cfr. Lc 24,1-53). Marco ci dice che nonostante fu “visto” “ofthe” (greco), “venne” kai este (greco, waw aramaico), (nei Vangeli non si parla mai di apparizioni, questo dovremmo ricordarlo sempre, soprattutto di questi tempi), le donne fuggirono perché “avevano paura”.
L’Assenza, la sospensione, la notte oscura (S. Giovanni della Croce) è quanto afferma l’orante del Salterio quando grida a Dio: “Signore, tu hai visto, non tacere! Non stare da me lontano! (…) Non essere sordo alle mie lacrime! (…) A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere perché, se tu non parli, sono come chi scende nella fossa infernale!” (Salmi , 35, 22; 39, 13; 28, 1).
Anche Marco ci testimonia l’esperienza di Gesù sulla croce, quando egli sperimenta l’”abbandono” del Padre attraverso il suo silenzio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc,15, 34). Quel vuoto, smarrimento, notte oscura, rende Cristo veramente e pienamente nostro fratello non solo nel dolore e nella morte, ma anche nell’assenza di Dio, non sfocerà nella definitiva lontananza e nella solitudine. Incombe, infatti, l’alba della Pasqua quando il Padre risponderà efficacemente all’invocazione del Figlio attraverso la risurrezione.
Il nostro fondatore ci dice che nel cammino dall’uomo vecchio uomo nuovo kainòs ànthròpos, possiamo fare l’esperienza dell’aporia, dello smarrimento, del buio, ma tutto questo non deve abbatterci. “Nello scrivere questo mi ricordo del seguente passaggio: “Egli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici; il vostro cuore non venga meno; non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi.”(On n.2).
Ancora: Abbiamo bisogno di avere coraggio, molto coraggio per questo, dobbiamo rinunciare a quel che è vecchio ed avere la vera disposizione di camminare dal vecchio al nuovo, con ogni ardore e fervore, sapendo che il Signore ci dà la VITTORIA!
Moysée, in questo cammino ci chiama a “spogliarci dell’uomo vecchio…per rivestirci dell’uomo nuovo” (1 Cor 15,45.47). Paolo, come Moisés, insiste come l’uomo, la donna, il giovane o l’anziano, senza Cristo è un essere morto ontologicamente, spiritualmente, fisicamente.
Alcuni termini dell’antropologia di Paolo, che lungamente ha meditato e vissuto sulla sua carne sárx, possono aiutarci nel cammino dall’uomo vecchio all’uomo nuovo e a non cadere in forme di vago e alienante spiritualismo.
L’uomo (anthropos) è corpo (sôma) e cuore (kardìa), spirito (pneûma) e carne (sárx): dalle lettere paoline non emerge una riflessione sistematica sull’uomo e sul rapporto esistente fra corpo e anima.
La terminologia non uniforme nelle diverse lettere di Paolo porta a ritenere che egli non si preoccupasse eccessivamente di distinguere kardìa da psyche (essere vivente) o da pneuma oppure sôma da sárx. L’antropologia paolina risulta pertanto profondamente unitaria, quanto alla costituzione dell’uomo in sé considerata.
Chiarissima invece è, nell’epistolario paolino, una distinzione che deriva all’uomo dal peccato di Adam (uomo e non nome di persona) e dalla redenzione portata da Cristo, duplice possibilità che si ripresenta in ogni esistenza individuale.
È tutto l’uomo che può seguire – per grazia di Dio e per la fede in essa – lo Spirito di Dio (che è anche Spirito di Cristo -pneuma tou theou e pneuma tou Christou), oppure può commettere il peccato (amartìa).
Se non ci affidamo allo Spirito di Dio, se non seguiamo l’aspirazione dello Spirito (phronema tou pneumatos), cadiamo nel peccato e ci affidamo all’aspirazione della carne (phronema tes sarkos).
A questo secondo livello la carne sárx (in ebraico è bāsár). Sárx indica l’essere umano nella sua pienezza, nella sua fragilità di creatura; questo termine è contrapposto allo “spirito” (che è solo Dio). Tutto il resto, rispetto a Dio, è “carne”: gli animali, le piante, tutto quello che ha a che fare con la morte e la fragilità di creatura.
Isaia ne parla in 31,3 : “L’Egiziano è un uomo e non un dio, i suoi cavalli sono carne e non spirito…” Oppure ancora: “Ogni essere umano è come l’erba. E tutta la sua gloria è come un fiore del campo…” (Is 40,6)
“Carne” vuol dire fragilità, morte. “Spirito” è potenza di Dio. Per Paolo sárx è causa del peccato e del male, mentre il corpo in quanto tale non è peccato, non ha una valenza negativa; per semplificare possiamo, che per sàrx, Paolo intende l’uomo vittima della mondanità.
Così quando Paolo afferma, ad esempio, che “la carne ha desideri contrari allo Spirito” e che “le opere della carne sono: fornicazioni, impurità, dissolutezze, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (Gal 5,17-21), intende le “opere del peccato”, non le “opere compiute dall’uomo in quanto essere corporale”, tanto è vero che molti dei peccati elencati riguardano l’interiorità dell’uomo (come la discordia, la gelosia, le divisioni, l’invidia ecc.).
Ancora, in greco corpo, come persona concreta, si può dire sôma. Questo concetto non ha corrispettivo in ebraico. Nel linguaggio paolino esso indica la persona concreta, che ha relazioni con gli altri, col Signore Gesù risorto, che sceglie il suo orientamento morale e spirituale. Da qui nasce l’espressione tipica di Paolo “corpo del peccato” (Rm 6,6). Quando capitano queste espressioni, si pensi al linguaggio dei giuristi, in tribunale, che parlano di “corpo del reato” (cioè l’oggetto del contendere). Il corpo è sempre la persona vivente. E quando dice “corpo del peccato”, intende “la persona schiava di questa potenza ostile a Dio, ribelle, incapace di amare, che è il peccato.” Il peccato è una forza che travolge la persona. “Corpo del peccato” è una persona asservita al peccato, che ha scelto come padrone il peccato. Si trova anche “corpo di morte” (Rm 7,24) – oggi tradotto anche in “corpo mortale”.
E’ il corpo destinato alla morte: la persona che va inesorabilmente verso la morte, se non c’è la forza di Dio che la salva.
Come detto, Paolo ha anche un’accezione positiva del corpo, in quanto Cristo diviene il principio di vita del nostro corpo. Quindi nessuna divisione tra vita spirituale e vita materiale, corporale: “nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo”. Fil 1,20
Ovviamente questa valutazione in sé positiva del corpo come dello Spirito – se non diveniamo schiavi del peccato – discende dalla fede nella creazione e nell’incarnazione e suscita la certezza che come Cristo è resuscitato corporalmente così anche l’uomo risorgerà con il proprio corpo.
L’antropologia paolina è quindi concentrata sulla possibilità di vivere l’intera vita – insieme corporea e spirituale – nella luce della redenzione operata da Cristo. Dalla vita di fede nasce il frutto dello Spirito (karpos tou pneumatos) che si concretizza nelle opere buone (kala erga), mentre dal seguire il peccato nascono le opere della carne (erga tes sarkos).
Nell’orientarsi in questa duplice possibilità l’uomo mette in gioco la sua volontà (verbo thelo), la coscienza (sineidesis), la mente, (nous), la saggezza (sophia). Ma un termine è centrale nell’antropologia paolina e di Moysés, è lo Spirito.
Come detto questo termine indica il “respiro, alitare, vento, aria in movimento”, “tempesta”. Ecco perché lo Spirito santo viene rappresentato da Luca come “un turbine di vento impetuoso”. Rûah è femminile in ebraico, neutro in greco ed in latino è diventato maschile. Per questo nella Trinità le tre Persone sono tutti maschi! Rûah è la forza. Dio, è Spirito, mentre gli esseri umani sono “carne”. Anche la grande forza militare dell’Egitto (carri e cavalli) sono “carne”. Dio è spirito. Si consideri il dialogo di Gesù con la donna di Samaria in cui lei chiede dove si deve adorare Dio: se lì o a Gerusalemme. Gesù le risponde: “Dio è Spirito e gli adoratori lo adoreranno in Spirito e verità.”(Gv 4, 23). A Nicodemo che protesta di non poter ritornare a nascere da vecchio, Gesù risponde: “Quello che è nato dallo Spirito è Spirito.” (Gv 3, 6-8). “Spirito-pnéuma” esprime l’aspetto dinamico relazionale dell’essere umano. Questa esperienza l’ho vissuta grazie al carisma Shalom.
Quindi il frutto della vita secondo lo Spirito è la vita (zoé) di relazione con Dio (concetto differenze da bios che esprime il decorso della vita temporale), mentre le conseguenze della vita secondo il peccato sono la perdizione (apōleia) e la morte (thánatos).
A questo punto chiarito i vari concetti, possiamo dire che se ci lasciamo abitare dallo Spirito, siamo uomini spirituali (pneumatikos), e possiamo fare l’esperienza della Pasqua dalla morte alla vita, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, kainòs ànthròpos; quindi non c’é spazio per fughe, intimismi o separazioni. La vita dello Spirito, la vita spirituale comprende tutta intera l’esistenza; dal mattino alla sera; il mangiare, il bere, il dormire, l’amare, lo studiare, il lavoro, il pregare, il soffrire, il gioire, la relazione con gli altri; è tutta questa vita animata dallo Spirito di Gesù. Solo chi vive in questa dimensione è l’uomo spirituale, è l’uomo nuovo, l’uomo che ha la spiritualità, così come essa emerge dalla rivelazione di Gesù Cristo.
Carmine Tabarro