Buongiorno vorrei camminare insieme a voi all’interno di quella famiglia semita che noi chiamiamo la Santa Famiglia.
In particolare vorrei che ci soffermarcissimo su colui che nei Vangeli è rimasto quasi sempre sullo sfondo, sì, proprio il capofamiglia, Giuseppe, un nome chiaramente ebraico che significa “Dio aggiunga!” o “che egli raduni!”.
Nella letteratura biblica questo è un nome portato da altri sei personaggi biblici, tra i quali il più celebre è quel figlio di Giacobbe che fece fortuna in Egitto divenendo da schiavo viceré, così da trasformarsi secoli dopo nel protagonista del fluviale romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann.
I Vangeli canonici di Giuseppe, padre legale e non naturale di Gesù, ci lasciano tracce esili: affiora nella genealogia di Cristo; appare come il promesso sposo di Maria (Lc 1, 27), sarà menzionato durante la nascita di Gesù a Betlemme (Lc 2,4-5), lo ritroviamo in qualche fugace apparizione nei primi giorni del neonato, acquisterà rilievo durante la vicenda di clandestino e migrante in Egitto, riemergerà dal silenzio anni dopo quando sarà testimone ancora silente, nelle parole di sua moglie, Maria, in occasione della “fuga” del figlio dodicenne nel tempio di Gerusalemme tra i dottori della Legge (“tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”, Lc 2,48), e sarà ricordato con una certa ironia dai suoi concittadini di Nazareth, quando di fronte ai “successi” del figlio: “Ma costui non è il figlio di Giuseppe…, il figlio del carpentiere?» (Lc 4, 22; Mt 13, 55).
Voglio insieme con voi soffermarmi su due pagine dei Vangeli nelle quali Giuseppe è protagonista. Sono le uniche e riguardano proprio il tempo liturgico del Natale.
La prima: è la cosiddetta “annunciazione a Giuseppe” ed è narrata dall’evangelista Matteo (1, 18-25). Leggiamo insieme: “Così fu generato Gesù Cristo: sua Madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta, per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.
Fiumi di inchiostri sono stati versati per comprendere questo pericope.
A mio avviso per entrare in questa pagina e capire il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria, dobbiamo tenere. in considerazione, almeno sommariamente, del mondo culturale ebraico del tempo, circa il rito del matrimonio. Il matrimonio comprendeva due fasi ben definite. La prima – denominata qiddushin, cioè “consacrazione”, perché la donna veniva “consacrata” al suo sposo – questo rito dava vita a quello che noi chiamiamo il fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza che solitamente aveva dodici o tredici anni.
Questo primo rito comportava una nuova situazione per la ragazza: pur continuando a vivere a casa sua all’incirca per un altro anno, essa era chiamata e considerata già “moglie” del suo futuro marito e per questo ogni infedeltà era ritenuta un adulterio.
La seconda fase era chiamata nissu’in (dal verbo nasa’, ossia “sollevare, portare”) in quanto ricordava il trasferimento processionale della sposa che veniva “accompagnata” nella casa dello sposo, un avvenimento che fa da sfondo alla parabola di Gesù che ha per protagoniste le ragazze del festoso corteo nuziale notturno (cf. Mt 25, 1-13). Questo atto suggellava la seconda e definitiva tappa del matrimonio ebraico. Il racconto evangelico che abbiamo letto sopra si colloca, allora, nella prima fase, quella del fidanzamento, “consacrazione”: “Prima che andassero a vivere insieme (col trasferimento alla casa di Giuseppe), Maria si trovò incinta”.
Si tratta di una situazione difficile culturalmente per Giuseppe. Se nelle nostre società ancora fa scandalo, figuriamoci al tempo di Giuseppe cosa significava questa notizia.
Quindi Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica. Il libro biblico del Deuteronomio era chiaro e implacabile: “Se la giovane non è stata trovata in stato di verginità, allora la faranno uscire all’ingresso della casa del padre e la gente della sua città la lapiderà a morte, perché ha commesso un’infamia in Israele, disonorandosi in casa del padre” (cf.22, 20-21).
Ai tempi di Giuseppe la giurisprudenza giudaica, però, aveva preso strada un’altra norma più moderata, quella che imponeva il ripudio. Come abbiamo visto, trattandosi già di una vera e propria “moglie”, si doveva celebrare un divorzio ufficiale con tutte le conseguenze civili e penali per la donna.
Giuseppe si trova dinanzi all’obbedienza della Legge e “ripudiare” Maria; essendo uomo “giusto”, cioè obbediente alla legge del cuore dei padri, egli si mette su questa strada amara, ma, essendo uomo “giusto”, che secondo il linguaggio biblico significa anche mite, misericordioso, buono, lo vuole fare nella forma più delicata e più attenta per Maria.
Sembra optare per la via “segreta”, senza denunzia legale, senza processo e clamore, alla presenza dei soli due testimoni necessari per la validità dell’atto di divorzio, cioè la consegna del cosiddetto “libello di ripudio”. Certo, la nostra sensibilità postmoderna ci fa dire: che ne sarebbe stato di Maria? La risposta è purtroppo chiara e inequivocabile: sarebbe stata un’emarginata totale, rifiutata da tutti, accolta, forse, solo dal clan paterno assieme al figlio illegittimo che avrebbe generato. Questa era la triste situazione della donna nell’antico Vicine Oriente.
Ritorniamo a Giuseppe e al suo dramma interiore, per altro comune a quello vissuto da tante coppie di fidanzati.
Quindi Giuseppe sembra solo nel vivere questa sua oscura tensione è, all’improvviso, squarciata da una luce: l’angelo nella Bibbia è per eccellenza il segno di una rivelazione divina come il sogno (se ne contano cinque nel Vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Mt) è il simbolo della comunicazione di un mistero. “Non temere di portare Maria a casa tua”, completando così anche la seconda fase del matrimonio (nissu’in), dice l’angelo a Giuseppe.
Ed è qui che scatta la grande rivelazione del mistero che si sta compiendo in Maria: “Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. E questa la sorpresa straordinaria che sconvolgerà la vita di Giuseppe, sorpresa molto più forte di quella di avere la propria donna incinta di un altro uomo. Si apre, allora, per Giuseppe una vita nuova e una missione unica. Egli, che è “figlio di Davide” (è l’unica volta nei Vangeli in cui questo titolo non viene applicato a Gesù), dovrà “trasmettere la linea ereditaria davidica” (nel senso divino) al figlio di Maria nella qualità di padre legale. Potremmo dire che, come Maria è colei per mezzo della quale Gesù nasce nel mondo come figlio di Dio, Giuseppe è colui per mezzo del quale Gesù nasce nella storia come figlio di Davide.
La paternità legale o “putativa” in Oriente era molto più normale di quanto possiamo immaginare.
Ne porta testimonianza con il caso del “levirato” (dal latino levir, cognato) così formulato nel Deuteronomio: “Quando uno dei fratelli di un clan morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto verrà presa in moglie dal cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questi non si estingua in Israele” (25, 5-6). In altre parole, il padre reale di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari.
Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome riconoscendolo giuridicamente.
Nella Bibbia il nome è il compendio simbolico di una persona, è la sua carta d’identità: perciò, anche se si hanno delle eccezioni (è Eva a chiamare “Set” il suo secondo figlio), è il padre a dichiarare il nome del figlio e Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio. “Gesù” è l’equivalente di Giosuè, e a livello di etimologia popolare e immediata significa “Il Signore salva”, come è spiegato dall’angelo: “Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Anche Pietro in un suo discorso registrato dagli Atti degli Apostoli afferma: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (4,12). A un’analisi più filologica “Gesù” significa letteralmente “Il Signore aiuta” o “Il Signore dà la vittoria”, un senso abbastanza vicino a quello tradizionale.
Nel Vangelo di Mt c’è un ultimo dato che mi colpisce.
Riguarda la frase finale, quella della nascita di Gesù, che letteralmente suona così: “Giuseppe prese con sé la sua sposa e non la conobbe prima che gli partorisse il figlio”.
Sappiamo che nella Bibbia il verbo “conoscere” è un modo simbolico per alludere all’atto matrimoniale. Come è facile immaginare, su questa frase per secoli si è accesa una dura discussione teologica riguardante la verginità perpetua di Maria e la presenza nei Vangeli dei cosiddetti “fratelli e sorelle di Gesù”. Anche qui siamo nel campo dei problemi dell’inculturazione e di traduzione.
Ma procediamo con ordine. In realtà il testo di Mt nel suo tenore originale non affronta la questione, dal momento che in italiano, quando si dice che una cosa non succede “fino a” un certo tempo, si suppone di solito che abbia luogo dopo: Giuseppe non ha avuto rapporti con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto averli. In greco, invece, e nelle lingue semitiche si vuole mettere l’accento solo su ciò che avviene fino alla scadenza del “finché”: Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Il tema fondamentale è, perciò, quello della concezione verginale di Maria. Gesù non nasce né da seme umano né da volere della carne, ma solo per lo Spirito di Dio che opera in Maria vergine. Corretta è allora la traduzione che ci propone la Bibbia ufficiale italiana da noi sopra adottata e che abbiamo ascoltato anche nella liturgia natalizia: “Senza che Giuseppe la conoscesse, Maria partorì un figlio”.
Ho parlato prima di due pagine dei Vangeli in cui Giuseppe è protagonista.
La seconda ci fermiamo brevemente. La famiglia di Gesù si iscrive subito nel lungo elenco che giunge fino ai nostri giorni e che comprende i profughi, i clandestini, i migranti. Ecco, infatti, quando il bambino Gesù ha pochi mesi, Giuseppe in marcia con lui e con la sposa Maria attraverso il deserto di Giuda per riparare in Egitto, lontano dall’incubo del potere sanguinario del re Erode. Anche in questo caso siamo proprio agli antipodi da quel “Natale bianco e borghese’ assurdamente prospettato da certe attuali ignoranze religiose e da isterie xenofobe. Il Natale cristiano ha, in verità, per protagonisti una famiglia di clandestini, fuggiaschi e migranti con la loro storia di sventure e paure. “Il cristianesimo – scriveva nei suoi quaderni il filosofo Wittgenstein – non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà nell’anima umana, ma la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo”.
Shalom!
Carmine Tabarro