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“Non lasciateci soli, non dimenticateci”. Un testimone straordinario dei cristiani in Iraq

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In occasione della venuta a Roma per le giornate di studio che hanno per destinatari i nuovi vescovi, abbiamo incontrato mons. Yousif Toma, arcivescovo di Kirkuk e al-Sulaymaniyya, un testimone straordinario che ci ha raccontato in prima persona quello che vediamo, sentiamo e leggiamo attraverso i mass media sulla persecuzione dei cristiani in Iraq e sulle violenze perpetrate dall’Isis.

 

Pensavamo di sentir parlare di una tragedia invece ascoltiamo una voce di speranza, perché, nonostante la miserabile situazione in cui si trova, la gente trasmette speranza e dà frutti incredibili di fede. Mons. Toma vuole innanzitutto raccontarci questi frutti, con l’orgoglio di pastore, nella Chiesa e tra i fedeli dell’Iraq: “I cristiani hanno dato testimonianza di Cristo davanti gli altri iracheni e questo rimarrà sicuramente quando l’Isis finirà; hanno mantenuto la loro fede nonostante tutto, nessuno si è convertito o ha pagato le tasse; tutti hanno lasciato tutto davanti alle minacce dell’Isis. Il lavoro della Chiesa nel dare fondamenta alla fede ha dato frutto con fedeli forti nella fede: è la dimostrazione di una Chiesa millenaria che è ancora viva, dinamica. Un altro aspetto importante – ha aggiunto – è che, tutto sommato, ringraziando il Signore, i cristiani hanno subito meno persecuzione dai Yesiditi”.

Abbiamo chiesto a mons. Toma cosa sia effettivamente successo il 6 di agosto scorso: “I mass media cercano quello che attira l’attenzione, quello che si può far vedere con immagini veloci, mandano flash e la gente si emoziona. L’Isis ha sfruttato questo aspetto con i filmati dei giustizieri e dell’ orrore. La gente non capiva niente e hanno avuto paura, persino l’esercito iracheno e i Peshmerga (l’esercito curdo). Quelli dell’Isis – spiega mons. Toma – sono innanzitutto fanatici, si è anche scoperto che usano che si drogano prima dell’attacco, in modo che la persona diventa come pazza, con la forza di cento persone. Le tecniche del terrorismo che ha acquisito l’Isis sono quelle conosciute anche in altri contesti, non sono nate qui, sono come le Brigate Rosse in Italia, la Banda Baader-Meinhof in Germania, Aum in Giappone e altri ancora”.

Come si spiega quello che è successo? “Nella zona la debolezza dei governi della Siria e dell’Iraq ha fatto sì che alcune componenti della società che non sono d’accordo con loro abbiano aperto le loro braccia all’Isis, come i sunniti di Mosul. Se anche c’era un po’ di fondamentalismo islamico, certo non si poteva immaginare che l’Isis usasse il fondamentalismo islamico per arrivare alla meta con mezzi molto moderni e brutali allo stesso tempo. Usano infatti le persone umane come ha fatto Bin Laden, ma si potrebbe dire che l’Isis usa le tecniche di al Qaeda moltiplicandole per dieci, sono molto più pericolosi di al Qaeda.

Hanno usato internet, massacrando le persone davanti alla telecamera con la bandiera nera, hanno impaurito il cuore della gente, questo ha fatto sì che prima del loro arrivo la gente fugga. Oggi Mosul è una città di fantasmi dalla quale sono usciti anche i sunniti. Inoltre è impossibile dialogare con loro perché non riconoscono nessuno, neppure i loro seguaci. Un esempio: i Pashmarga hanno preso prigionieri alcuni combattenti dell’Isis per uno scambio, l’Isis ha risposto di non avere prigionieri e che quindi possono trattare questi prigionieri come credono, anche ucciderli. Non si tratta con un altro Stato, ma con un’entità finale.

“Cè un punto – continua mons. Toma – di cui pochi parlano, il paragone tra le tecniche dell’Isis e del nazismo. Hitler ha messo la stella per distinguere gli ebrei e a noi hanno messo la lettera N: sei cristiano. Non esiste la diversità: se non sei con l’Isis sei contro e devi andartene. Cosi siamo entrati in una fase in cui non si accetta il diverso e tutti diventano nemici, anche il musulmano sunnita che non obbedisce è nemico. Questa è la realtà. Oggi l’Isis ha conquistato tanto territorio in Siria e in Iraq, questa invasione veloce ha lasciato una situazione in cui né il governo, né l’ esercito, né la gente sanno che cosa fare. Hanno invaso i villaggi cristiani con l’aiuto di altri villaggi alleati con loro, e 130mila cristiani sono scappati. Abbiamo cercato di aiutarli nonostante la situazione miserabile, ma in realtà la loro situazione non è miserabile come quella dei yasiditi: tra loro hanno ucciso almeno 500 persone e più di 600 donne sono state vendute come schiave nei mercati di Mosul e Raqaa. Ho cercato – dice il vescovo – di trovare cristiane per comprarle e liberarle a qualsiasi prezzo, ma non ne abbiamo trovate. Forse non ce n’erano”.

samar2Dopo la fuga dei cristiani, quale è l’esperienza nella sua diocesi, dove sono stati accolti: “La gente è arrivata da noi nelle zone sicure (Kirkuk, Sulaymaniyya, Arbil, Duhok e le montagna). La mia diocesi ha accolto più di 750 famiglie (550 Sulaymaniyya, 250 Kirkuk). Subito la gente ha aperto le proprie case, tutti hanno accolto e aiutato. Posso raccontare una storia molto significativa: in una casa che ha accolto 70 persona, il capo della casa ha avuto un infarto per la fatica, lo hanno trasferito in ospedale, i figli gli hanno detto di mandare via i rifugiati per potersi riposare, ma lui ha rifiutato rispondendo che sono suoi ospiti. E cosi tante altre storie di persone che hanno aperto le porte delle proprie case. Per coloro che non hanno trovato posto nelle case, abbiamo aperto le chiese; nella chiesa di Sulaymaniyya, nel salone per gli incontri ci sono 270 persone; in Kirkuk abbiamo usate le scuole e le chiese. Abbiamo comprato per loro il necessario: cibo, ventilatori, vestiti e soprattutto medicine, perfino gli occhiali per i bambini; abbiamo avuto dei contributi e li abbiamo anche dato del denaro. Abbiamo celebrato dei matrimoni, perché la vita non si ferma. I cristiani che sono arrivati sono stati accolti come fratelli dai nostri cristiani. Nella mia diocesi nessuno sta in tenda, tutti sono sotto un tetto”.

Infine, rispondendo alla domanda su che cosa vi aspettate dalla comunità internazionale e dalla Chiesa in concreto: “Noi vogliamo che i cristiani non escano dal paese; se si lascia la possibilità a 1000 o a 10.000, chi rimarrà? i poveri e i disgraziati e questo non è giusto. Noi vogliamo risolvere il problema e chiediamo alla comunità internazionale di fare pressione sul governo e i Peshmarga, incoraggiandoli a trovare una soluzione; siamo un paese ricco che se fosse governato bene avrebbe la sua autonomia. La presenza e i politici europei in Iraq è molto utile e incoraggia il governo centrale a fare qualcosa.

Il secondo punto importante è creare sempre occasioni di informazione e sostegno (eventi, articoli, momenti preghiera… ) per ricordare al mondo qual è la situazione. Anche una notizia drammatica, dopo 3 giorni si dimentica. E non si possono dimenticare i cristiani e tutti i cittadini dell’Iraq.

 di Samar Messayeh 


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