FORMAZIONE SHALOM – LECTIO DIVINA Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
Nella Liturgia della Parola di questa domenica, il telos è l’affermazione che attraversa le tre letture: “Dio nutre il suo popolo; Dio dona il cibo alle sue creature”.
Mosè e i figli d’Israele nel deserto di Moab hanno fatto l’esperienza che Dio li ha nutriti con la manna (I lettura); Gesù è il pane donato da Dio per la vita del mondo (Vangelo); l’unico pane che sfama l’uomo – per la II lettura questo significa che Cristo nutre la comunità cristiana e la fa partecipare all’unica vita del suo Signore.
Il cibo che viene da Dio consente al suo popolo di sostenersi nella kenosis – nella conversione del deserto, nel faticoso esodo verso la terra promessa (I lettura); è il pane del popolo che cammina verso il Regno di Dio, è il pane che ha una duplice valenza: salva, libera, l’uomo a partire “dall’oggi” con una prospettiva escatologica. E’ il pane che dona unità, l’esperienza sponsale della comunità con il Risorto, costituendola come unico corpo in Cristo (II lettura), radicandola nel dono di Dio e nel suo amore, e dunque ha una valenza ecclesiologica; è il pane vivo che assume il volto e il corpo di Cristo, che ci fa vedere la sua umanità, che ci umanizza e santifica alimentandoci e vivendo, della sua carne e del suo sangue (Vangelo).
Precisiamo meglio il contesto del Vangelo odierno meglio conosciuto come il discorso del pane di vita (Gv 6,22-71). Si tratta di una serie di sette brevi dialoghi tra Gesù e le persone che si trovavano con lui dopo la moltiplicazione dei pani. Gesù cerca di aprire (aprirci) gli occhi facendo comprendere che non basta lottare per il pane materiale. La lotta quotidiana per il pane materiale non va alla radice dei problemi dell’uomo se non è accompagnata da una profonda vita spirituale. Difatti l’uomo “non vive solo di pane” (Dt 8,3)! I sette brevi dialoghi sono una catechesi molto bella che ci spiega il senso profondo della moltiplicazione dei pani e dell’Eucaristia.
Lungo tutto il dialogo appaiono le esigenze che il vissuto della fede in Gesù indica alla nostra vita. La gente intorno a Gesù reagisce e rimane colpita dalle sue parole. Ma Gesù che ci ama non cede alla durezza della nostra cecità, vuole donarci il pane che sfama e non un surrogato. Per questo molti lo abbandonano ieri come oggi. “Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne mangiare?”.
Ieri come oggi succede la stessa cosa: quando il Vangelo inizia ad essere esigente, molti di noi lo abbandonano. Nella misura in cui il discorso di Gesù va avanti sempre meno gente rimane accanto a lui. Alla fine rimangono solo in undici e Gesù non può confidare nemmeno in loro.
Torniamo al contesto del Vangelo, Gesù è inseguito dalla folla e dai Giudei, e lo trovarono al di là del mare e gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”, Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. La folla, segue Gesù solo per i miracoli, ma non comprende che si tratta solo di un segno, che non è il fine ma che rimanda a qualcosa di più grande e di più profondo. Quante volte come cristiani ci fermiamo solo al miracolismo o alla superficie del fatto, alla disponibilità del cibo. Quando siamo superficiali cerchiamo il pane di vita, ma solo per il corpo.
Secondo la gente, Gesù fa ciò che Mosè aveva già fatto nel passato: nutrire tutti; ed essi vogliono che il passato si ripeta. Ma Gesù chiede loro e a noi di fare un passo in più: non di affaticarci per il pane che perisce, bensì di procurarsi anche il cibo che non perisce. Questo nuovo pane, che rimane, dà la vita che dura per sempre. Attenzione le parole di Gesù: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51), non vanno immediatamente intese in senso eucaristico e in riferimento al pane eucaristico. Queste parole ci mostrano Gesù come colui che rivela il Padre e che può dare la vita umana al mondo con la sua stessa vita, con l’interpretazione della vita umana che egli ha mostrato all’umanità nella sua concreta esistenza.
Il “mangiare me” (cf. Gv 6,57), il “mangiare la mia carne e bere il mio sangue” (cf. Gv 6,53.54.56) rinviano al “discepolo amato”, noi tutti siamo il “discepolo amato”, e all’operazione spirituale di assimilare nella nostra vita la vita di Cristo. Per poter assimilarci a Cristo e fare la volontà del Padre siamo chiamati ad avere la fede, credere, ascoltare la Parola delle Scritture, pregare, “mangiare il suo corpo concretamente”.
Attenzione non si tratta solo di manducare l’eucaristica.
La vita umana di Gesù (la sua carne e il suo sangue), come testimoniata nei Vangeli, è il cibo di cui ogni credente è chiamato a nutrirsi con il pensiero, la contemplazione e l’azione affinché la vita di Gesù viva concretamente in noi.
La Chiesa, la nostra comunità è il luogo in cui la concreta umanità di ognuno di noi è chiamata a conformarsi all’umanità di Gesù, alla sua vita. Affinché sia vero che un’unica vita lega il Signore e il suo discepolo. Il Sacramento dell’Eucarestia, sacramento di carità è il culmine e la fonte in cui nella Chiesa si manifesta l’alleanza tra il Signore, la comunità e il credente ed il frutto è la vita eterna. La vita eterna promessa a chi vive della vita di Cristo (cf. Gv 6,51.54.58), in realtà inizia già qui e ora per il credente. Siamo chiamati ad integrare la morte nella vita facendo della nostra vita un atto di donazione di sé, un atto di amore seguendo le tracce di Gesù (cf. Gv 13,34).
Atto di amore è quello di Gesù, vero uomo, che si dona come cibo e bevanda agli uomini. Atto di amore è la morte di Gesù, amore che è all’origine della resurrezione e della promessa della vita per sempre con il Signore nel segno eucaristico.
Quando Gesù afferma che Lui è il pane che non proviene dalla terra ma discende dal cielo e che è destinato a essere mangiato per dare vita agli uomini; in queste parole ci mostra il mistero e lo scandalo della croce: per dare vita occorre perdere la vita. Ma la vita che perdo in me, nella quotidianità la vedo rinascere nell’altro.
Una stupenda immagine di donazione totale ci viene dal Vangelo di Marco. Il suo Vangelo è conosciuto come il Vangelo dei miracoli, ma i miracoli di Gesù muoiono con Lui sulla croce, dove Gesù, che ha guarito gli altri, non salva se stesso. Potenza e debolezza sono le due faccie del mistero della croce: i miracoli mostrano che in Lui agisce la potenza di Dio, e la croce mostra che la potenza di Dio è l’amore e il dono di sé. Gesù ci vuole condurre a “capire” la croce, perché questo è il luogo più denso in cui cogliere il volto umano e divino di Gesù. La croce mette in crisi ogni cristiano sin dalla Chiesa prepasquale. Ma questo non ci deve scandalizzare.
Questa “logica” di donare agli uomini la vita di Dio, che ha fatto entrare il Figlio Unigenito di Dio nella vita umana, assumendone i nostri limiti, e rendendoci partecipi della Sua carne e del Suo sangue (cf. Eb 2,14), non è fine a se stessa: attraverso la croce ci invita alla donazione gratuita, alla relazione fraterna, alla partecipazione responsabile, alla comunione incarnata. Il Figlio dell’uomo ci invita a mangiare la sua carne e il suo sangue, cioè ci rende “capaci” di partecipare alla sua vita.
Vita di Dio e vita dell’uomo si incontrano nell’amore, nell’agape, acqua e cibo che profondamente tolgono la sete e la fame all’uomo; realtà che costituisce la vita di Dio: “Dio è amore” (1Gv 4,8.16). L’Eucaristia è il sacramento della carità, dell’agape, in cui il dono di Dio agli uomini è la piena narrazione del suo amore per noi e la fonte del nostro amarci come Cristo ci ha amati.
La comunità che nasce dall’Eucaristia è costituita dall’insieme di fratelli, “capaci di dono” perché “abbiamo visto” il Dono farsi carne, in un circuito di donazione che ha la sua origine nell’alto, da Dio; è formata da “coloro che amano” (“Amatevi gli uni gli altri”: Gv 13,34) in quanto essi stessi “amati” (“come io ho amato voi”: Gv 13,34). Attenzione chi non ha il coraggio di aprirsi alla “logica della croce”, rinunciando alle idee-mito che finora hanno diretto la nostra vita, si espone a quella inquietudine propria di chi più non capisce, più non si orienta.
Gli idoli-miti, individuali e collettivi come il giovanilismo, la superficiale felicità, il patologico amore materno, la moda, la tecnica, la sicurezza, la sessofobia, la pornografia, l’avidità, il potere, la religiosità disincarnata, il mercato, la crescita economica. Questi sono alcuni idoli-miti, individuali e collettivi del nostro tempo, le idee che più di altre ci pervadono e ci plasmano come persone e come società. Quelle che la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa propongono come valori e impongono come pratiche sociali, fornendo loro un linguaggio che le rende appetibili e desiderabili.
Gli idoli- miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel profondo della nostra anima. Sono idee che noi abbiamo mitizzato perché non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola ci rassicurano. Eppure occorre risvegliarsi dalla quiete apparente delle nostre idee mitizzate, perché molte sofferenze, molti disturbi, molti malesseri nascono proprio dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono più di comprendere il mondo in cui viviamo, chiudono il nostro cuore alla “logica della croce e dell’amore”.
Per recuperare la nostra presenza al mondo dobbiamo allora rivisitare i nostri peccati, i nostri miti-idoli, sia individuali che collettivi, dobbiamo sottoporli al vaglio della “logica della croce”, dell’Eucaristia sacramento di carità, di agape. Solo il Risorto, il Vivente è fonte piena di amore è la luce che illumina i problemi che affliggono la nostra vita; solo Cristo è capace di “curarci” dalle nostre sofferenze, dai nostri miti-idoli e dalle idee con cui interpretiamo la vita.